mercoledì 15 agosto 2012

Il Primo e l'Ultimo



Il Primo e l’Ultimo, la piu’ bella pagina della XXX° Olimpiade
l suo sogno l’ha avuto. L’ha desiderato con tutto il cuore, l’ha strappato con le unghie e coi denti e infine l’ha ottenuto. In lista coi normodotati, quelli con le gambe tutte intere. Nella squadra del Sudafrica, nella batteria dei 400m piani, la sua specialità. Corre, Oscar, corre fino alla semifinale. E arrivato lì, corre ancora. Alla seconda frazione, arranca già e temo il peggio. Temo possa fermarsi. Invece no: onora fino in fondo la propria Olimpiade, fatta di sorrisi e sudore, di battaglie legali, di presunti vantaggi, di carte bollate e di avvocati, di fiducia nella tecnica ma anche nella costanza dell’uomo. Arriva ottavo, cioè ultimo nella propria batteria, ma arriva. Porta a termine la sua gara, Oscar. Sembra quasi frastornato, l’attesissimo sudafricano di vaghe origini toscane. Taglia il traguardo e si guarda intorno, un po’ confuso: con un risultato che era già in partenza superiore alle aspettative, non sa che fare. E, nell’incertezza, rispolvera la sua arma migliore: un gran sorriso, anche se un po’ provato dallo sforzo; inutile negarlo, l’agonismo e i ritmi serrati di un’Olimpiade nulla hanno a spartire coi ritmi, la possibilità di recupero e forse persino la mentalità che caratterizzano una Paralimpiade. Pare rendersi pienamente conto di tutto questo solo al termine della semifinale dei 400 metri olimpici di Londra, pochi secondi dopo aver concluso l’ennesima. Contro il tempo, contro i pregiudizi, contro la fissità, contro l’incapacità di guardare. E se qualcuno pensa che Oscar abbia corso contro qualcuno, basta guardarlo in faccia per capire che innanzitutto corre per divertirsi. Corre per avere un’altra chance, sempre una in più. Corre perché ci ha preso gusto: lui che aveva iniziato solo per recuperare da un infortunio, lui, che giocava a rugby e pallanuoto!
E, alla fine della sua gara, accade l’inverosimile. Il vincitore torna sui suoi passi. Kirani James gli si avvicina e, con garbata decisione, esprime anche lui un desiderio: vuole scambiare la sua pettorina con quella di Oscar. In seguito spiegherà che ha grande rispetto per Oscar, per lui è soltanto un ragazzo al pari di tutti gli altri. Sembrano cose dell’altro mondo: il vincitore che insegue il perdente, l’ultimo della batteria, per averne un souvenir. Credo che in quest’immagine paradossale sia racchiuso il senso della corsa di Pistorius, forse frainteso da molti, ma mai dal sudafricano, che fino all’ultimo è rimasto fedele a se stesso.
Perdente non è chi arriva ultimo, ma chi si siede e guarda gli altri correre.
Questo gli disse sua madre. E a questa legge estremamente olimpica mai contravvenne il buon Oscar, anche quando chiunque sarebbe stato tentato di farlo: di fronte al pensiero di sfigurare, di fronte alla possibilità di essere ultimi in assoluto, i più lenti di tutti. È stato in questa semifinale che Oscar avrebbe potuto avere un duro colpo. Sarebbe stato comprensibile: spinto da tanti, inviso ad altri, ma in ogni caso, sempre sotto i riflettori (cosa che non sempre aiuta). E invece, con la complicità del vincitore, ha firmato ancora una cartolina olimpica, sottolineando cosa importi davvero.
Ogni atleta sa quali sono le proprie verosimili possibilità, sa quali sono i propri tempi abituali. Ma sa anche che l’adrenalina olimpica costituisce quel pizzico d’imponderabile che può sparigliare le carte in tavola. Non c’è sorpresa nell’eliminazione in semifinale. Ce n’è stata piuttosto – e giustamente – per l’ammissione ad essa.
Ma vedere vinto e vincitore scambiarsi i ruoli non è stato solo un simpatico siparietto olimpico: arriva a toccare il cuore stesso dello sport e dell’agonismo. Superiore a sconfitta e vittoria c’è la prestazione personale, specie in sport come questi. Lo so, sembra egoistico parlarne in questi termine, ma è l’unico modo per comprendere meglio cosa significhi. In una competizione ci si misura con gli altri, in termini assoluti. E quindi, in termini assoluti si misura chi lancia più lontano, chi salta più in alto o più in lungo, chi corre più veloce eccetera. Ma la competizione con l’altro non tiene conto della situazione personale. Per chi a fatica ha raggiunto i tempi di qualificazione, arrivare in semifinale è soddisfazione non minore di quella che avrebbe chi, abituato a primeggiare, ottenga una medaglia di bronzo. Non c’è delusione per chi ha fatto il massimo possibile consentito dalle proprie forze, in quel preciso momento e occasione. A chiunque fa piacere vincere e nessuno baratterebbe una vittoria con una sconfitta: ma quando la conclusione dell’avventura olimpica avviene dopo aver raggiunto il massimo risultato possibile, non s’incontra frustrazione, perché il cuore è sereno e la coscienza pulita. Si torna a casa con emozioni nuove, la consapevolezza di poter migliorare e nuovi stimoli che ti spingono a farlo. E allora, anche un apparente arresto nella corsa, si rivela solo una necessaria ri – partenza, verso nuovi obiettivi.
p. s. nella finale Kirani James vincera’ la medaglia d’oro nei 400 mt. Primo oro assoluto per la sua terra d’origine: Grenada. Medaglia d’oro anche per quello che ha fatto e che rende queste olimpiadi piu’ umane e degne dello spirito con cui tanti anni orsono sono nate. Non tutto e’ finito in questo mondo, occorre saper tirare fuori il meglio che c’e’ nell’uomo…

giovedì 9 agosto 2012

Salviamo l'uomo Alex





Come chicchi di grandine in un cielo d'agosto. Una tempesta di sms per annunciare, seppur in maniera velata e lontana dalla cattiveria, la notizia che nessuno aveva il coraggio di raccontarmi: Alex Schwazer, positivo ad un controllo antidoping, bloccato alla partenza per Londra. Cala il silenzio, scompaiono improvvise le parole, s'affacciano mille ombre. Perché quel ragazzo - nato e cresciuto tra boschi di larici, all'ombra di una chiesetta sorvegliata da papaveri rosa - era per me l'emblema dello sport sano e genuino, condito dal sudore e rispettoso di quella religione della fatica che aveva fatto di lui l'immagine bella di uno sport ch'è metafora nobile dell'esistenza. Allenamenti, capacità di sopportazione, fiuto del limite: in quel pugno stretto dentro lo stadio a “nido d'uccello” di Pechino era raccontata la storia di un camminatore che aveva lasciato sospettare che lo sport fosse una nobile forma di educazione. Vinceva perché si divertiva: “non sono felice di aver vinto, ma ho vinto perché sono un ragazzo felice” - confessò ai microfoni con l'oro al collo. Qualche anno dopo s'affacciò la crisi nera sotto le vesti di una donna maligna e informe, sbadatamente neutrale e tentacolare. Ne insinuò il sospetto che la fatica non valesse il gioco, che la strada fosse troppo lunga, che la mente chiedesse una tregua. A Barcellona s'inginocchiò per terra: non era il gesto d'adorazione di un vincente che bacia il suolo conquistato ma il grido d'aiuto di un ragazzo che non si divertiva più. E senza divertimento anche il talento, seppur intrigante, è un'insopportabile presenza. Come un estraneo da esporre al pubblico ludibrio.
Ne raccolsi la sua storia, la feci diventare un romanzo, usai il suo alfabeto per parlare a quel popolo giovane che abita l'Italia. Per questo la notizia è devastante: dietro quel volto c'era davvero la convinzione che lo sport fosse un alfabeto meraviglioso per interpretare l'ardua fatica di diventare uomini. Forse usai un pizzico di poesia per tratteggiarne le gesta, qualcuno stamattina ci leggerà del grottesco o dell'irreale ripercorrendo nel romanzo Contropiede (San Paolo 2012) la filosofia che ne animava le tracce. Di quelle sillabe non rinnegherò mai nulla perché erano dettate dalla contemplazione di un volto ch'era impossibile fosse costruito dalla tecnica. In quel miscuglio di spiritualità e fatica, di ardore e discrezione, di battiti e di aneliti abita ancora la storia di un ragazzo che ieri mi faceva girare la testa e oggi chiede aiuto. Perché sotto la coperta del doping c'è dell'altro: la paura di non essere all'altezza dei sogni, l'ansia di non accettare il tempo che scorre, la voglia di spostare limiti in mondovisione, il malaugurato sospetto che la scorciatoia sia indice di maturità e di passione per l'ignoto.
L'uomo non è solo il suo errore: stavolta, però, avverto che la responsabilità è tanta. Perché negli inferi non ci va solo lui ma l'intero popolo che ai suoi piedi aveva legato la favola di un'Italia che non molla. In quelle scarpe sudate e consumate è nascosto oggi un ragazzo che va preso per mano e va aiutato a parlare, a trovare parole di denuncia e di collaborazione, a trasformare lo strazio e il pentimento in feritoie attraverso le quali far strada alla speranza per il futuro di molti ragazzi. La carriera forse è finita ma la vita continua: nobile cosa è la carriera sportiva, di ben altra caratura è l'impresa di diventare uomini. E nessun uomo è mai il suo mestiere, anche se un mestiere fatto con cuore, onestà e passione diventa un volàno meraviglioso per mostrare che nella vita si può essere felici anche senza mettersi in società con il gatto e la volpe. Di questa fatica Alex potrebbe diventare testimonial per ridare colore ad una storia che stamattina appare illeggibile e artefatta.
Io ci sono, Alex, e ti vorrò sempre bene. D. M. P.